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Psicologo Psicoterapeuta Mestre Venezia
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17/03/2020

ENANTIODROMIA o dell’attualità di ERACLITO ai tempi del CORONAVIRUS. Un punto di vista psicologico.

La parola enantiodromia (dal greco antico ἐναντιοδρομία, composto di enantios, opposto e dromos, corsa) significa letteralmente “corsa nell’opposto”. Questa parola va a nominare una realtà collettiva ed universale di cui noi tutti abbiamo esperienza: la realtà del divenire, dimensione implicita nella nostra esperienza cosciente della quale patiamo gli effetti e temiamo le conseguenze, e che viene ad accompagnare un’altra parola molto in auge in questi tempi: la parola trasformazione. L’enantiodromia quindi è il gioco degli opposti dei quali facciamo esperienza nella nostra interazione con la realtà: al giorno è contrapposta la notte, alla vita è contrapposta la morte. Come il giorno diventerà notte e la notte diventerà giorno, così ciò che è vivo diventerà morto e sarà utile alla germinazione di nuova vita. Così grossa parte della nostra quota di risorse esistenziali, siano esse esperite sotto forma di pensieri o preoccupazioni, timori o desideri, impegno, sacrifici, tempo e risorse economiche, ogni nostro sforzo cosciente è volto a mantenere a fatica una forma che perduri opponendoci, a prezzo di immani sacrifici, ad un un mondo che nella sua natura, nella suo ombra, contiene in sé quell’opposto che tanto ci minaccia per il semplice fatto che, esistendo, viene a porci un problema dal quale vogliamo emanciparci. Se sono ricco lotterò per esorcizzare il timore che più minaccia la mia condizione di privilegio, ovvero lo spettro della povertà. Fino ad oggi è esistito un mondo con dei riferimenti, con delle classi sociali e delle garanzie, con dei nemici definiti e definitivi, con un Nord ed un Sud economici, con delle convinzioni che vedevano l’immagine dell’Altro (sia esso il nero, il povero, il vecchio l’extracomunitario) come “quello che io non vorrei essere e che più mi minaccia, ma senza il quale io non sarei chi sono”. Senza un “povero” faticheremmo in effetti a definire un “ricco”, sia che si parli di sostanze possedute che di qualità personali. “Se non vi fossero le mie coetanee con la ricrescita e la pelle cadente, il mio “mantenermi giovane” con l’ausilio di creme, iniezioni e trattamenti perderebbe senso e valore.” L’opposto a noi ci è in qualche modo necessario. Tra me e l’Altro deve esserci però un bordo, una “distanza di sicurezza”, un fiumiciattolo freddo ed ostile che Eraclito chiama “Polemos”, “la contesa” e che ci dice essere “Padre di tutte le cose”. Tra me, e l’Altro che mi minaccia e che minaccia il mio potermi distinguere da lui, che minaccia la mia identità, deve esserci ostilità, una ostilità necessaria che garantisca un ordine nelle cose. Ordine che ha la caratteristica di orientarmi nel mondo, di dare significato al mondo. Ma Eraclito insegna che nell’eterno gioco di opposti del divenire tutto ciò che esiste passa nel suo opposto. Ai nostri giorni, così impegnati a mantenere un ordine nel mondo, dimentichiamo che quello per cui tanto ci affanniamo è per l’appunto “uno” dei possibili ordini praticabili non l’unico possibile. A ricordarcelo è giunto nelle nostre coscienze un fenomeno chiamato Coronavirus. Un giorno come tanti si sono concretizzate le paure che più attanagliano la nostra visione del mondo: qualcosa ci ricorda che potremmo essere dal lato sbagliato dello specchio, oltre il quale l’Altro che siamo andati criticando ha oggi il nostro volto. Allora nel rovesciamento radicale delle prospettive si palesa a noi un agente virale che modifica la traiettoria verso cui tutti pedalavamo venendo a chiederci “Ma dove stavamo andando così di corsa?” Per la prima volta in questi tempi di comunicazione globale e tra le rare volte nella nostra storia, il nemico non sceglie solo chi ha la pelle di un colore diverso dal mio o un accento diverso, non attacca chi ha bandiere diverse dalle mie o una cultura diversa dalla mia. Il nemico, essendo un virus, attacca l’essere umano. Non solo. Si diffonde, veloce, si nasconde alla vista. Non ci sono, per nostra fortuna, piaghe purulente o chiazze cutanee, l’Altro non si riconosce così facilmente. Può essere nascosto in molti di noi, asintomatico, o può palesarsi o camuffarsi in un banale starnuto o in un innocente colpo di tosse. L’ Altro, il portatore del Male, potrei essere io: mio malgrado, potrei essere un untore inconsapevole, potrei cagionare in maniera del tutto indiretta il male altrui. “Natura ama nascondersi” sosteneva Eraclito in un suo celebre frammento: la vera natura delle cose è solita celarsi allo sguardo. Il Nord ricco del mondo scappa assaltando i treni e i voli verso Sud, dove viene rimbalzato. Lui, quel Nord che si interrogava se assistere o meno altri umani a rischio vita, fuggiti loro malgrado dallo spettro da cui esso stesso é quotidianamente terrorizzato e contro il quale combatte: fame, povertà, guerra. Lo stesso Nord del mondo che si chiede se salvare delle vite umane in balia del mare sia opportuno, ironizzando sul “cibo per i pesci” e dimenticando che quello che spesso finisce cucinato e servito sulle tavole riccamente imbandite al Nord è anche pesce di quei mari. La fuga nell’opposto è l’inevitabile esperienza con l’Altro che ci spaventa e che potremmo essere, in un mondo rovesciato, noi stessi allo specchio. “La via che va su è la via che va giù” sostiene Eraclito. Ma, tradendo l’istinto alla cooperazione, uno degli istinti radicali dell’essere umano assieme a quello di sopravvivenza e di riproduzione, anteponiamo una convenzione ad un istinto e cadiamo in un altro degli automatismi di cui la sopravvivenza ci ha dotato, ovvero la possibilità i riconoscere, a fini di sopravvivenza, gli altri membri del nostro clan, sia esso di familiari o di appartenenti alla stessa cerchia (reale o supposta). Questo istintivo dispositivo di riconoscimento ci salva la vita nella nostra infanzia e ci garantisce di affidarci ad altri esseri umani a noi simili, che (così inconsapevolmente andiamo supponendo) ci aiuteranno a sopravvivere, a nutrirci e proteggerci non potendolo fare da noi se non dopo molti anni di esercizio. Questo istinto ci salva, ma facilita la possibilità di enfatizzare le differenze tra me e l’altro. Lui non è come me. Non ha la pelle del mio colore, è più basso, è vestito diversamente da me. Parla una lingua che non è la mia, prega un Dio che non è il mio. La domanda che consegue è: è un essere umano quindi? Questa domanda su che cosa sia l’umano ha impegnato molti pensatori e filosofi. Fu rivolta di epoca in epoca con fare inquisitorio a svariate parti di quel puzzle che chiamiamo umanità. Cosa rende l’umano un “umano”? In questi tempi in cui il contatto con l’umano è precluso nella sua dimensione fisica, ci accorgiamo che abbiamo un corpo. Galleggiando nella virtualità delle relazioni (ad oggi non precluse), quello che sembra mancare è la possibilità concreta dell’incontro. Questo Virus ridisegna le regole dell’umano. Ci si incontra, ma da lontano. Ricalibra la distanza consentita tra esseri umani, almeno un metro, e si intrufola nelle nostre abitudini. Si annida psicologicamente nei gesti più spontanei. Diventa un “fattore psichico” nelle sue componenti di frustrazione: mentre noi, popolo degli abbracci e dei baci, vorremmo…non possiamo.
Agisce da un punto di vista psicologico come un tampone agisce da un punto di vista fisico. Rivela porzioni di valore e di importanza a delle porzioni dell’esperienza che siamo soliti fare del mondo in maniera automatica, irriflessa. Pone l’accento su quello che sono solito fare in automatico senza pensarci e lo riconsegna, crudo nella sua assenza, all’alveo della coscienza, sotto forma di mancanza. Prendiamo coscienza di gesti automatici come un bacio o una stretta di mano e ne comprendiamo il valore proprio nel momento in cui questi stessi ci sono preclusi. Patiamo il non poter abbracciare chi amiamo o di non averlo fatto “prima”, prima che non si potesse più. Crepitano, come braci mai spente, preoccupazioni circa la possibilità che anziani genitori, nel quotidiano non considerati o addirittura biasimati, si possano ammalare in maniera severa, rischiando la vita. Accortezze inaspettate che a volte prendono la forma di prudenze o cautele da parte di figli verso i genitori e che si concretizzano in mascherine ed amuchina acquistate per loro. “Allora se mi preoccupo per loro, forse non li odio così tanto?” potrebbe chiederci una voce interna, nascosta, e sempre potenzialmente presente, proprio come il virus che ci minaccia. Il corpo rientra in scena nella sua assenza. Amiamo chattare, fotografare condividere, videochiamare ma un abbraccio tra due corpi vivi è una esperienza la cui mancanza non è colmabile dalla tecnologia. Nell’epoca delle relazioni digitali e dell’istantaneo che annulla la distanza, annulla i confini, annulla il corpo, ai tempi del Coronavirus patiamo limitazioni, costrizioni, invalicabilità dei confini, distanza. Il calore fisico dell’incontro in occidente, una ritualità fatta di pacche, abbracci, baci sulle guance e strette di mano a distanza ravvicinata, diventa, per effetto delle imposizioni, una distanza necessaria a cui dover rendere conto, che ci richiama al “rispetto” dell’altro, che assomiglia di più alla modalità di incontro orientale, modulato attraverso il tono della voce, delle parole (verso le quali ci scopriamo impreparati),dello sguardo e del saluto a distanza attraverso gesti di incontro minimali: un cenno del capo, un inchino. Un’altra enantiodromia. L’ occidente che incontra l’oriente. Il tempo frenetico e denso di una Metropoli globale surriscaldata ed inquinata, portatrice sintomatica del tempo imposto dal business, con i suoi grattacieli titanici, con i suoi iper-mercati fagocitanti e sempre aperti, con il suo traffico denso e maleodorante, si modifica. Laddove per seguire il ritmo era necessario l’utilizzo di sostanze psicoattive (basti pensare alla diffusione trasversale della cocaina: dagli strati sociali sottoposti allo stress da obiettivo come le figure manageriali giù fino all’ultimo dei magazzinieri aziendali, e dei costi sociali di questo ritmo in termini di dipendenze, burn out, suicidi, depressioni, malattie psicosomatiche e stress correlate) ora ci è chiesto di rallentare. E’ come quando, abituati per una vita a prendere un autobus alla stessa ora, o ad avere un’ora a disposizione per la pausa pranzo, continuiamo a provare un sussulto e ci affrettiamo nella camminata o mangiamo con foga come avessimo i minuti contati anche una volta raggiunta la pensione o essendo in vacanza. Siamo tenacemente “abituati”. Il vecchio è duro a morire, quello a cui siamo abituati fatica a lasciarci. Il nostro vecchio modo di concepire noi stessi ed il mondo, quello che, almeno illusoriamente ci ha aiutato a distinguere nella nostra visione della realtà tra i buoni ed i cattivi, il nord ed il sud, chi vince e chi perde, non vorrebbe arrendersi all’evidenza. Ma come capita talvolta in quei viaggi in auto tra amici, quando, persi a chiacchierare dei vecchi tempi o a commentare una notizia od una canzone che passa per la radio, qualcuno non assorto dalla conversazione chiede: “Ehi ma dove stiamo andando?!” consentendo all’allegra comitiva di prendere coscienza del fatto di aver sbagliato uscita e di essere fuori strada da almeno 15 minuti, così questo Coronavirus viene a rallentare i nostri tempi e ci impone di porci la medesima domanda: “Ma noi, così di corsa, dove stavamo andando?” Se l’obiettivo è stato fino a qui la fretta di arrivare prima e per primi, perché non si vuole perdere tempo e perché “se non arrivo io arriva qualcun altro e non me ne lascerà abbastanza”, andrebbe capito se il problema sia nella fragilità dell’essere umano, con le sue meschinità, i suoi egoismi e le sue debolezze o nella struttura che abbiamo costruito per mantenere questa idea di ordine del mondo e su cui sorge quella di “essere umano” che ci ha accompagnato fino a questo punto. In tempi in cui abbiamo l’occasione di avere un assaggio di quello che significhi per tutti noi la limitazione della libertà, (limitazione relativa siamo d’accordo, ma proprio per questo ottima occasione per comprendere cosa significhi una limitazione totale, dalla quale un altro essere umano da un’altra parte del mondo è intento a fuggire) possiamo essere più vicini a quella parte dell’umanità alla quale questo privilegio è precluso. Ferirci con una spina è doloroso ma ci rende sufficientemente l’idea di quanto possa essere dolorosa una lama conficcata nella nostra carne. Per nostra fortuna possiamo inferire il grado di pericolosità di qualcosa anche senza averne fatto diretta esperienza ma attraverso i nostri processi immedesimativi e attraverso una amplificazione della nostra esperienza soggettiva. Solitamente ci sbagliamo: solitamente è molto più doloroso di quanto immaginiamo. Ci è data l’occasione di inghiottire una pillola di privazione che ci può consentire di riflettere sul valore di quanto davamo per scontato. L’essere umano è un essere dotato di empatia, di un sistema di traduzione automatica delle espressioni del volto e degli atteggiamenti che ci consentono di riconoscere le emozioni e di conseguenza di inferire le intenzioni di un nostro simile. È quello che possiamo definire pensiero intuitivo, e si fonda su esperienze orientate alla sopravvivenza che hanno consentito al nostro patrimonio genetico di giungere fino a noi. Siamo cioè naturalmente dotati della capacità di metterci nei panni altrui. Soprattutto se abbiamo provato anche in piccola parte quanto quell’essere umano stia vivendo, sia questa una emozione, un dolore o una esperienza, qualcosa che ci accomuni. Questo ci ha consentito nei milioni di anni di fare comunità, di venirci in soccorso, di cooperare per un futuro migliore. Ci consente di operare per il bene dell’altro che diviene implicitamente vantaggio personale nella sopravvivenza della vita. Questo Virus nella sua componente psicologica rivela quello che il mezzo di contrasto rivela nelle indagini radiologiche: regala al negativo una immagine, ci fa esperire sulla pelle un piccolo assaggio di quello che andiamo a compiere ogni volta che agiamo “Polemos”, la Guerra e la contesa volta alla divisione, tra me ed un ipotetico “altro”, che da me dovrebbe distinguersi. Il nemico nella sua potenza democratica, questa volta non fa distinzioni: tutti uguali, tutti “esseri umani”, tutti mortali e tutti contagiabili. Toccando le corde più profonde della nostra natura, squarcia il velo di Maya delle nostre rassicuranti convinzioni e ci mostra il volto dell’altro, un altro umano che rischia quanto noi. Questa occasione che ci si presenta come esseri umani è una versione edulcorata di quelle situazioni distruttive descritte in certi film hollywoodiani in cui un bel giorno al di sopra delle teste dei protagonisti appare una minaccia aliena, solitamente descritta come ostile e predatoria, ipertecnologizzata e rapace che attaccando il pianeta facilita gli esseri umani a superare i vecchi rancori per lottare uniti sotto una unica bandiera, quella dell’umanità, in una lotta tra specie e specie per la sopravvivenza sul pianeta, la nostra casa. Nulla di tutto questo accadrà. Non vi saranno dischi volanti o specie viscide di alieni macrocefali a minacciarci, ma un nemico che ci considera, esattamente come farebbe una minaccia aliena, tutti appartenenti alla stessa specie, quella degli esseri umani. Forse vale la pena raccogliere il guanto di sfida e chiederci a viva voce cosa si intenda oggi per “umanità”, per “vita”, per “senso”. E dal momento che questo Virus non è nemmeno il più letale tra i virus, se in realtà la nostra specie nella sua storia ha superato situazioni endemiche di maggior violenza e di altissima mortalità, cosa rivela psicologicamente questo “mezzo di contrasto virale”? Rivela impietoso tutta l’inadeguatezza della nostra visione di futuro. Evidenzia il puerile ottimismo di un modello di umanità la cui direzione non si interroga sul suo obiettivo, mantenendosi però grazie ad una retorica apocalittica che racconta e sventola messaggi di crisi, di fine delle ricchezze, di pianeta inquinato e di distruzione della natura. Tutta la fragilità sta nel nostro immaginario di futuro e nel non curarci di un’altra radicale verità rivelataci da Eraclito: “Nulla è durevole quanto il cambiamento. Non c’è nulla di immutabile, tranne l’esigenza di cambiare. Tutto fluisce, nulla resta immutato.” Chi non muta è contro natura. Il vecchio è fragile e si rivela fragile nella sua difficoltà a modificarsi, a cambiare. Si diviene vecchi quando si è smesso di immaginare potremmo dire parafrasando James Hillman, e siamo forse innanzi ad una occasione eccezionale per l’umanità: quella di poter fare esperienza dell’umano e di quei valori che, acquisiti come diritti, vengono dimenticati e negati ad una fetta dell’umanità stessa. Questo fenomeno che chiamiamo pandemia riconsegna all’umanità la sua corona: “Coronavirus” si chiama questa minaccia, e pone sul nostro capo la corona che ci consente di realizzare, non i nostri sogni di potere, ma quale sia in realtà la nostra più grande caratteristica comune, quella che ci rende profondamente umani e nient’altro che umani e simili ai nostri simili: la fragilità. C’è chi sostiene che dovremmo meditare sulla possibilità, (per salvare noi stessi e il nostro privilegio di abitare un pianeta straordinariamente adatto ad ospitare la vita, da una autoestinzione) di costruire una società fondata sull’Uomo Fragile. Questa potrebbe essere l’occasione che aspettavamo. Quella dalla quale non possiamo scostare lo sguardo. Bianco, nero, orientale, ispanico, ovunque posiamo lo sguardo incontriamo due occhi ed un volto, fragile quanto noi innanzi alla durezza della vita. Il vecchio esala gli ultimi respiri ed è forse possibile meditare un ritmo diverso. Forse è possibile “trasformarsi”. Dipenderà da noi, dal nostro dare valore alla parola che amiamo attribuirci, la parola “umani”.La parola enantiodromia (dal greco antico ἐναντιοδρομία, composto di enantios, opposto e dromos, corsa) significa letteralmente “corsa nell’opposto”. Questa parola va a nominare una realtà collettiva ed universale di cui noi tutti abbiamo esperienza: la realtà del divenire, dimensione implicita nella nostra esperienza cosciente della quale patiamo gli effetti e temiamo le conseguenze, e che viene ad accompagnare un’altra parola molto in auge in questi tempi: la parola trasformazione. L’enantiodromia quindi è il gioco degli opposti dei quali facciamo esperienza nella nostra interazione con la realtà: al giorno è contrapposta la notte, alla vita è contrapposta la morte. Come il giorno diventerà notte e la notte diventerà giorno, così ciò che è vivo diventerà morto e sarà utile alla germinazione di nuova vita. Così grossa parte della nostra quota di risorse esistenziali, siano esse esperite sotto forma di pensieri o preoccupazioni, timori o desideri, impegno, sacrifici, tempo e risorse economiche, ogni nostro sforzo cosciente è volto a mantenere a fatica una forma che perduri opponendoci, a prezzo di immani sacrifici, ad un un mondo che nella sua natura, nella suo ombra, contiene in sé quell’opposto che tanto ci minaccia per il semplice fatto che, esistendo, viene a porci un problema dal quale vogliamo emanciparci. Se sono ricco lotterò per esorcizzare il timore che più minaccia la mia condizione di privilegio, ovvero lo spettro della povertà. Fino ad oggi è esistito un mondo con dei riferimenti, con delle classi sociali e delle garanzie, con dei nemici definiti e definitivi, con un Nord ed un Sud economici, con delle convinzioni che vedevano l’immagine dell’Altro (sia esso il nero, il povero, il vecchio l’extracomunitario) come “quello che io non vorrei essere e che più mi minaccia, ma senza il quale io non sarei chi sono”. Senza un “povero” faticheremmo in effetti a definire un “ricco”, sia che si parli di sostanze possedute che di qualità personali. “Se non vi fossero le mie coetanee con la ricrescita e la pelle cadente, il mio “mantenermi giovane” con l’ausilio di creme, iniezioni e trattamenti perderebbe senso e valore.” L’opposto a noi ci è in qualche modo necessario. Tra me e l’Altro deve esserci però un bordo, una “distanza di sicurezza”, un fiumiciattolo freddo ed ostile che Eraclito chiama “Polemos”, “la contesa” e che ci dice essere “Padre di tutte le cose”. Tra me, e l’Altro che mi minaccia e che minaccia il mio potermi distinguere da lui, che minaccia la mia identità, deve esserci ostilità, una ostilità necessaria che garantisca un ordine nelle cose. Ordine che ha la caratteristica di orientarmi nel mondo, di dare significato al mondo. Ma Eraclito insegna che nell’eterno gioco di opposti del divenire tutto ciò che esiste passa nel suo opposto. Ai nostri giorni, così impegnati a mantenere un ordine nel mondo, dimentichiamo che quello per cui tanto ci affanniamo è per l’appunto “uno” dei possibili ordini praticabili non l’unico possibile. A ricordarcelo è giunto nelle nostre coscienze un fenomeno chiamato Coronavirus. Un giorno come tanti si sono concretizzate le paure che più attanagliano la nostra visione del mondo: qualcosa ci ricorda che potremmo essere dal lato sbagliato dello specchio, oltre il quale l’Altro che siamo andati criticando ha oggi il nostro volto. Allora nel rovesciamento radicale delle prospettive si palesa a noi un agente virale che modifica la traiettoria verso cui tutti pedalavamo venendo a chiederci “Ma dove stavamo andando così di corsa?” Per la prima volta in questi tempi di comunicazione globale e tra le rare volte nella nostra storia, il nemico non sceglie solo chi ha la pelle di un colore diverso dal mio o un accento diverso, non attacca chi ha bandiere diverse dalle mie o una cultura diversa dalla mia. Il nemico, essendo un virus, attacca l’essere umano. Non solo. Si diffonde, veloce, si nasconde alla vista. Non ci sono, per nostra fortuna, piaghe purulente o chiazze cutanee, l’Altro non si riconosce così facilmente. Può essere nascosto in molti di noi, asintomatico, o può palesarsi o camuffarsi in un banale starnuto o in un innocente colpo di tosse. L’ Altro, il portatore del Male, potrei essere io: mio malgrado, potrei essere un untore inconsapevole, potrei cagionare in maniera del tutto indiretta il male altrui. “Natura ama nascondersi” sosteneva Eraclito in un suo celebre frammento: la vera natura delle cose è solita celarsi allo sguardo. Il Nord ricco del mondo scappa assaltando i treni e i voli verso Sud, dove viene rimbalzato. Lui, quel Nord che si interrogava se assistere o meno altri umani a rischio vita, fuggiti loro malgrado dallo spettro da cui esso stesso é quotidianamente terrorizzato e contro il quale combatte: fame, povertà, guerra. Lo stesso Nord del mondo che si chiede se salvare delle vite umane in balia del mare sia opportuno, ironizzando sul “cibo per i pesci” e dimenticando che quello che spesso finisce cucinato e servito sulle tavole riccamente imbandite al Nord è anche pesce di quei mari. La fuga nell’opposto è l’inevitabile esperienza con l’Altro che ci spaventa e che potremmo essere, in un mondo rovesciato, noi stessi allo specchio. “La via che va su è la via che va giù” sostiene Eraclito. Ma, tradendo l’istinto alla cooperazione, uno degli istinti radicali dell’essere umano assieme a quello di sopravvivenza e di riproduzione, anteponiamo una convenzione ad un istinto e cadiamo in un altro degli automatismi di cui la sopravvivenza ci ha dotato, ovvero la possibilità i riconoscere, a fini di sopravvivenza, gli altri membri del nostro clan, sia esso di familiari o di appartenenti alla stessa cerchia (reale o supposta). Questo istintivo dispositivo di riconoscimento ci salva la vita nella nostra infanzia e ci garantisce di affidarci ad altri esseri umani a noi simili, che (così inconsapevolmente andiamo supponendo) ci aiuteranno a sopravvivere, a nutrirci e proteggerci non potendolo fare da noi se non dopo molti anni di esercizio. Questo istinto ci salva, ma facilita la possibilità di enfatizzare le differenze tra me e l’altro. Lui non è come me. Non ha la pelle del mio colore, è più basso, è vestito diversamente da me. Parla una lingua che non è la mia, prega un Dio che non è il mio. La domanda che consegue è: è un essere umano quindi? Questa domanda su che cosa sia l’umano ha impegnato molti pensatori e filosofi. Fu rivolta di epoca in epoca con fare inquisitorio a svariate parti di quel puzzle che chiamiamo umanità. Cosa rende l’umano un “umano”? In questi tempi in cui il contatto con l’umano è precluso nella sua dimensione fisica, ci accorgiamo che abbiamo un corpo. Galleggiando nella virtualità delle relazioni (ad oggi non precluse), quello che sembra mancare è la possibilità concreta dell’incontro. Questo Virus ridisegna le regole dell’umano. Ci si incontra, ma da lontano. Ricalibra la distanza consentita tra esseri umani, almeno un metro, e si intrufola nelle nostre abitudini. Si annida psicologicamente nei gesti più spontanei. Diventa un “fattore psichico” nelle sue componenti di frustrazione: mentre noi, popolo degli abbracci e dei baci, vorremmo…non possiamo.
Agisce da un punto di vista psicologico come un tampone agisce da un punto di vista fisico. Rivela porzioni di valore e di importanza a delle porzioni dell’esperienza che siamo soliti fare del mondo in maniera automatica, irriflessa. Pone l’accento su quello che sono solito fare in automatico senza pensarci e lo riconsegna, crudo nella sua assenza, all’alveo della coscienza, sotto forma di mancanza. Prendiamo coscienza di gesti automatici come un bacio o una stretta di mano e ne comprendiamo il valore proprio nel momento in cui questi stessi ci sono preclusi. Patiamo il non poter abbracciare chi amiamo o di non averlo fatto “prima”, prima che non si potesse più. Crepitano, come braci mai spente, preoccupazioni circa la possibilità che anziani genitori, nel quotidiano non considerati o addirittura biasimati, si possano ammalare in maniera severa, rischiando la vita. Accortezze inaspettate che a volte prendono la forma di prudenze o cautele da parte di figli verso i genitori e che si concretizzano in mascherine ed amuchina acquistate per loro. “Allora se mi preoccupo per loro, forse non li odio così tanto?” potrebbe chiederci una voce interna, nascosta, e sempre potenzialmente presente, proprio come il virus che ci minaccia. Il corpo rientra in scena nella sua assenza. Amiamo chattare, fotografare condividere, videochiamare ma un abbraccio tra due corpi vivi è una esperienza la cui mancanza non è colmabile dalla tecnologia. Nell’epoca delle relazioni digitali e dell’istantaneo che annulla la distanza, annulla i confini, annulla il corpo, ai tempi del Coronavirus patiamo limitazioni, costrizioni, invalicabilità dei confini, distanza. Il calore fisico dell’incontro in occidente, una ritualità fatta di pacche, abbracci, baci sulle guance e strette di mano a distanza ravvicinata, diventa, per effetto delle imposizioni, una distanza necessaria a cui dover rendere conto, che ci richiama al “rispetto” dell’altro, che assomiglia di più alla modalità di incontro orientale, modulato attraverso il tono della voce, delle parole (verso le quali ci scopriamo impreparati),dello sguardo e del saluto a distanza attraverso gesti di incontro minimali: un cenno del capo, un inchino. Un’altra enantiodromia. L’ occidente che incontra l’oriente. Il tempo frenetico e denso di una Metropoli globale surriscaldata ed inquinata, portatrice sintomatica del tempo imposto dal business, con i suoi grattacieli titanici, con i suoi iper-mercati fagocitanti e sempre aperti, con il suo traffico denso e maleodorante, si modifica. Laddove per seguire il ritmo era necessario l’utilizzo di sostanze psicoattive (basti pensare alla diffusione trasversale della cocaina: dagli strati sociali sottoposti allo stress da obiettivo come le figure manageriali giù fino all’ultimo dei magazzinieri aziendali, e dei costi sociali di questo ritmo in termini di dipendenze, burn out, suicidi, depressioni, malattie psicosomatiche e stress correlate) ora ci è chiesto di rallentare. E’ come quando, abituati per una vita a prendere un autobus alla stessa ora, o ad avere un’ora a disposizione per la pausa pranzo, continuiamo a provare un sussulto e ci affrettiamo nella camminata o mangiamo con foga come avessimo i minuti contati anche una volta raggiunta la pensione o essendo in vacanza. Siamo tenacemente “abituati”. Il vecchio è duro a morire, quello a cui siamo abituati fatica a lasciarci. Il nostro vecchio modo di concepire noi stessi ed il mondo, quello che, almeno illusoriamente ci ha aiutato a distinguere nella nostra visione della realtà tra i buoni ed i cattivi, il nord ed il sud, chi vince e chi perde, non vorrebbe arrendersi all’evidenza. Ma come capita talvolta in quei viaggi in auto tra amici, quando, persi a chiacchierare dei vecchi tempi o a commentare una notizia od una canzone che passa per la radio, qualcuno non assorto dalla conversazione chiede: “Ehi ma dove stiamo andando?!” consentendo all’allegra comitiva di prendere coscienza del fatto di aver sbagliato uscita e di essere fuori strada da almeno 15 minuti, così questo Coronavirus viene a rallentare i nostri tempi e ci impone di porci la medesima domanda: “Ma noi, così di corsa, dove stavamo andando?” Se l’obiettivo è stato fino a qui la fretta di arrivare prima e per primi, perché non si vuole perdere tempo e perché “se non arrivo io arriva qualcun altro e non me ne lascerà abbastanza”, andrebbe capito se il problema sia nella fragilità dell’essere umano, con le sue meschinità, i suoi egoismi e le sue debolezze o nella struttura che abbiamo costruito per mantenere questa idea di ordine del mondo e su cui sorge quella di “essere umano” che ci ha accompagnato fino a questo punto. In tempi in cui abbiamo l’occasione di avere un assaggio di quello che significhi per tutti noi la limitazione della libertà, (limitazione relativa siamo d’accordo, ma proprio per questo ottima occasione per comprendere cosa significhi una limitazione totale, dalla quale un altro essere umano da un’altra parte del mondo è intento a fuggire) possiamo essere più vicini a quella parte dell’umanità alla quale questo privilegio è precluso. Ferirci con una spina è doloroso ma ci rende sufficientemente l’idea di quanto possa essere dolorosa una lama conficcata nella nostra carne. Per nostra fortuna possiamo inferire il grado di pericolosità di qualcosa anche senza averne fatto diretta esperienza ma attraverso i nostri processi immedesimativi e attraverso una amplificazione della nostra esperienza soggettiva. Solitamente ci sbagliamo: solitamente è molto più doloroso di quanto immaginiamo. Ci è data l’occasione di inghiottire una pillola di privazione che ci può consentire di riflettere sul valore di quanto davamo per scontato. L’essere umano è un essere dotato di empatia, di un sistema di traduzione automatica delle espressioni del volto e degli atteggiamenti che ci consentono di riconoscere le emozioni e di conseguenza di inferire le intenzioni di un nostro simile. È quello che possiamo definire pensiero intuitivo, e si fonda su esperienze orientate alla sopravvivenza che hanno consentito al nostro patrimonio genetico di giungere fino a noi. Siamo cioè naturalmente dotati della capacità di metterci nei panni altrui. Soprattutto se abbiamo provato anche in piccola parte quanto quell’essere umano stia vivendo, sia questa una emozione, un dolore o una esperienza, qualcosa che ci accomuni. Questo ci ha consentito nei milioni di anni di fare comunità, di venirci in soccorso, di cooperare per un futuro migliore. Ci consente di operare per il bene dell’altro che diviene implicitamente vantaggio personale nella sopravvivenza della vita. Questo Virus nella sua componente psicologica rivela quello che il mezzo di contrasto rivela nelle indagini radiologiche: regala al negativo una immagine, ci fa esperire sulla pelle un piccolo assaggio di quello che andiamo a compiere ogni volta che agiamo “Polemos”, la Guerra e la contesa volta alla divisione, tra me ed un ipotetico “altro”, che da me dovrebbe distinguersi. Il nemico nella sua potenza democratica, questa volta non fa distinzioni: tutti uguali, tutti “esseri umani”, tutti mortali e tutti contagiabili. Toccando le corde più profonde della nostra natura, squarcia il velo di Maya delle nostre rassicuranti convinzioni e ci mostra il volto dell’altro, un altro umano che rischia quanto noi. Questa occasione che ci si presenta come esseri umani è una versione edulcorata di quelle situazioni distruttive descritte in certi film hollywoodiani in cui un bel giorno al di sopra delle teste dei protagonisti appare una minaccia aliena, solitamente descritta come ostile e predatoria, ipertecnologizzata e rapace che attaccando il pianeta facilita gli esseri umani a superare i vecchi rancori per lottare uniti sotto una unica bandiera, quella dell’umanità, in una lotta tra specie e specie per la sopravvivenza sul pianeta, la nostra casa. Nulla di tutto questo accadrà. Non vi saranno dischi volanti o specie viscide di alieni macrocefali a minacciarci, ma un nemico che ci considera, esattamente come farebbe una minaccia aliena, tutti appartenenti alla stessa specie, quella degli esseri umani. Forse vale la pena raccogliere il guanto di sfida e chiederci a viva voce cosa si intenda oggi per “umanità”, per “vita”, per “senso”. E dal momento che questo Virus non è nemmeno il più letale tra i virus, se in realtà la nostra specie nella sua storia ha superato situazioni endemiche di maggior violenza e di altissima mortalità, cosa rivela psicologicamente questo “mezzo di contrasto virale”? Rivela impietoso tutta l’inadeguatezza della nostra visione di futuro. Evidenzia il puerile ottimismo di un modello di umanità la cui direzione non si interroga sul suo obiettivo, mantenendosi però grazie ad una retorica apocalittica che racconta e sventola messaggi di crisi, di fine delle ricchezze, di pianeta inquinato e di distruzione della natura. Tutta la fragilità sta nel nostro immaginario di futuro e nel non curarci di un’altra radicale verità rivelataci da Eraclito: “Nulla è durevole quanto il cambiamento. Non c’è nulla di immutabile, tranne l’esigenza di cambiare. Tutto fluisce, nulla resta immutato.” Chi non muta è contro natura. Il vecchio è fragile e si rivela fragile nella sua difficoltà a modificarsi, a cambiare. Si diviene vecchi quando si è smesso di immaginare potremmo dire parafrasando James Hillman, e siamo forse innanzi ad una occasione eccezionale per l’umanità: quella di poter fare esperienza dell’umano e di quei valori che, acquisiti come diritti, vengono dimenticati e negati ad una fetta dell’umanità stessa. Questo fenomeno che chiamiamo pandemia riconsegna all’umanità la sua corona: “Coronavirus” si chiama questa minaccia, e pone sul nostro capo la corona che ci consente di realizzare, non i nostri sogni di potere, ma quale sia in realtà la nostra più grande caratteristica comune, quella che ci rende profondamente umani e nient’altro che umani e simili ai nostri simili: la fragilità. C’è chi sostiene che dovremmo meditare sulla possibilità, (per salvare noi stessi e il nostro privilegio di abitare un pianeta straordinariamente adatto ad ospitare la vita, da una autoestinzione) di costruire una società fondata sull’Uomo Fragile. Questa potrebbe essere l’occasione che aspettavamo. Quella dalla quale non possiamo scostare lo sguardo. Bianco, nero, orientale, ispanico, ovunque posiamo lo sguardo incontriamo due occhi ed un volto, fragile quanto noi innanzi alla durezza della vita. Il vecchio esala gli ultimi respiri ed è forse possibile meditare un ritmo diverso. Forse è possibile “trasformarsi”. Dipenderà da noi, dal nostro dare valore alla parola che amiamo attribuirci, la parola “umani”. parola enantiodromia (dal greco antico ἐναντιοδρομία, composto di enantios, opposto e dromos, corsa) significa letteralmente “corsa nell’opposto”. Questa parola va a nominare una realtà collettiva ed universale di cui noi tutti abbiamo esperienza: la realtà del divenire, dimensione implicita nella nostra esperienza cosciente della quale patiamo gli effetti e temiamo le conseguenze, e che viene ad accompagnare un’altra parola molto in auge in questi tempi: la parola trasformazione. L’enantiodromia quindi è il gioco degli opposti dei quali facciamo esperienza nella nostra interazione con la realtà: al giorno è contrapposta la notte, alla vita è contrapposta la morte. Come il giorno diventerà notte e la notte diventerà giorno, così ciò che è vivo diventerà morto e sarà utile alla germinazione di nuova vita. Così grossa parte della nostra quota di risorse esistenziali, siano esse esperite sotto forma di pensieri o preoccupazioni, timori o desideri, impegno, sacrifici, tempo e risorse economiche, ogni nostro sforzo cosciente è volto a mantenere a fatica una forma che perduri opponendoci, a prezzo di immani sacrifici, ad un un mondo che nella sua natura, nella suo ombra, contiene in sé quell’opposto che tanto ci minaccia per il semplice fatto che, esistendo, viene a porci un problema dal quale vogliamo emanciparci. Se sono ricco lotterò per esorcizzare il timore che più minaccia la mia condizione di privilegio, ovvero lo spettro della povertà. Fino ad oggi è esistito un mondo con dei riferimenti, con delle classi sociali e delle garanzie, con dei nemici definiti e definitivi, con un Nord ed un Sud economici, con delle convinzioni che vedevano l’immagine dell’Altro (sia esso il nero, il povero, il vecchio l’extracomunitario) come “quello che io non vorrei essere e che più mi minaccia, ma senza il quale io non sarei chi sono”. Senza un “povero” faticheremmo in effetti a definire un “ricco”, sia che si parli di sostanze possedute che di qualità personali. “Se non vi fossero le mie coetanee con la ricrescita e la pelle cadente, il mio “mantenermi giovane” con l’ausilio di creme, iniezioni e trattamenti perderebbe senso e valore.” L’opposto a noi ci è in qualche modo necessario. Tra me e l’Altro deve esserci però un bordo, una “distanza di sicurezza”, un fiumiciattolo freddo ed ostile che Eraclito chiama “Polemos”, “la contesa” e che ci dice essere “Padre di tutte le cose”. Tra me, e l’Altro che mi minaccia e che minaccia il mio potermi distinguere da lui, che minaccia la mia identità, deve esserci ostilità, una ostilità necessaria che garantisca un ordine nelle cose. Ordine che ha la caratteristica di orientarmi nel mondo, di dare significato al mondo. Ma Eraclito insegna che nell’eterno gioco di opposti del divenire tutto ciò che esiste passa nel suo opposto. Ai nostri giorni, così impegnati a mantenere un ordine nel mondo, dimentichiamo che quello per cui tanto ci affanniamo è per l’appunto “uno” dei possibili ordini praticabili non l’unico possibile. A ricordarcelo è giunto nelle nostre coscienze un fenomeno chiamato Coronavirus. Un giorno come tanti si sono concretizzate le paure che più attanagliano la nostra visione del mondo: qualcosa ci ricorda che potremmo essere dal lato sbagliato dello specchio, oltre il quale l’Altro che siamo andati criticando ha oggi il nostro volto. Allora nel rovesciamento radicale delle prospettive si palesa a noi un agente virale che modifica la traiettoria verso cui tutti pedalavamo venendo a chiederci “Ma dove stavamo andando così di corsa?” Per la prima volta in questi tempi di comunicazione globale e tra le rare volte nella nostra storia, il nemico non sceglie solo chi ha la pelle di un colore diverso dal mio o un accento diverso, non attacca chi ha bandiere diverse dalle mie o una cultura diversa dalla mia. Il nemico, essendo un virus, attacca l’essere umano. Non solo. Si diffonde, veloce, si nasconde alla vista. Non ci sono, per nostra fortuna, piaghe purulente o chiazze cutanee, l’Altro non si riconosce così facilmente. Può essere nascosto in molti di noi, asintomatico, o può palesarsi o camuffarsi in un banale starnuto o in un innocente colpo di tosse. L’ Altro, il portatore del Male, potrei essere io: mio malgrado, potrei essere un untore inconsapevole, potrei cagionare in maniera del tutto indiretta il male altrui. “Natura ama nascondersi” sosteneva Eraclito in un suo celebre frammento: la vera natura delle cose è solita celarsi allo sguardo. Il Nord ricco del mondo scappa assaltando i treni e i voli verso Sud, dove viene rimbalzato. Lui, quel Nord che si interrogava se assistere o meno altri umani a rischio vita, fuggiti loro malgrado dallo spettro da cui esso stesso é quotidianamente terrorizzato e contro il quale combatte: fame, povertà, guerra. Lo stesso Nord del mondo che si chiede se salvare delle vite umane in balia del mare sia opportuno, ironizzando sul “cibo per i pesci” e dimenticando che quello che spesso finisce cucinato e servito sulle tavole riccamente imbandite al Nord è anche pesce di quei mari. La fuga nell’opposto è l’inevitabile esperienza con l’Altro che ci spaventa e che potremmo essere, in un mondo rovesciato, noi stessi allo specchio. “La via che va su è la via che va giù” sostiene Eraclito. Ma, tradendo l’istinto alla cooperazione, uno degli istinti radicali dell’essere umano assieme a quello di sopravvivenza e di riproduzione, anteponiamo una convenzione ad un istinto e cadiamo in un altro degli automatismi di cui la sopravvivenza ci ha dotato, ovvero la possibilità i riconoscere, a fini di sopravvivenza, gli altri membri del nostro clan, sia esso di familiari o di appartenenti alla stessa cerchia (reale o supposta). Questo istintivo dispositivo di riconoscimento ci salva la vita nella nostra infanzia e ci garantisce di affidarci ad altri esseri umani a noi simili, che (così inconsapevolmente andiamo supponendo) ci aiuteranno a sopravvivere, a nutrirci e proteggerci non potendolo fare da noi se non dopo molti anni di esercizio. Questo istinto ci salva, ma facilita la possibilità di enfatizzare le differenze tra me e l’altro. Lui non è come me. Non ha la pelle del mio colore, è più basso, è vestito diversamente da me. Parla una lingua che non è la mia, prega un Dio che non è il mio. La domanda che consegue è: è un essere umano quindi? Questa domanda su che cosa sia l’umano ha impegnato molti pensatori e filosofi. Fu rivolta di epoca in epoca con fare inquisitorio a svariate parti di quel puzzle che chiamiamo umanità. Cosa rende l’umano un “umano”? In questi tempi in cui il contatto con l’umano è precluso nella sua dimensione fisica, ci accorgiamo che abbiamo un corpo. Galleggiando nella virtualità delle relazioni (ad oggi non precluse), quello che sembra mancare è la possibilità concreta dell’incontro. Questo Virus ridisegna le regole dell’umano. Ci si incontra, ma da lontano. Ricalibra la distanza consentita tra esseri umani, almeno un metro, e si intrufola nelle nostre abitudini. Si annida psicologicamente nei gesti più spontanei. Diventa un “fattore psichico” nelle sue componenti di frustrazione: mentre noi, popolo degli abbracci e dei baci, vorremmo…non possiamo.
Agisce da un punto di vista psicologico come un tampone agisce da un punto di vista fisico. Rivela porzioni di valore e di importanza a delle porzioni dell’esperienza che siamo soliti fare del mondo in maniera automatica, irriflessa. Pone l’accento su quello che sono solito fare in automatico senza pensarci e lo riconsegna, crudo nella sua assenza, all’alveo della coscienza, sotto forma di mancanza. Prendiamo coscienza di gesti automatici come un bacio o una stretta di mano e ne comprendiamo il valore proprio nel momento in cui questi stessi ci sono preclusi. Patiamo il non poter abbracciare chi amiamo o di non averlo fatto “prima”, prima che non si potesse più. Crepitano, come braci mai spente, preoccupazioni circa la possibilità che anziani genitori, nel quotidiano non considerati o addirittura biasimati, si possano ammalare in maniera severa, rischiando la vita. Accortezze inaspettate che a volte prendono la forma di prudenze o cautele da parte di figli verso i genitori e che si concretizzano in mascherine ed amuchina acquistate per loro. “Allora se mi preoccupo per loro, forse non li odio così tanto?” potrebbe chiederci una voce interna, nascosta, e sempre potenzialmente presente, proprio come il virus che ci minaccia. Il corpo rientra in scena nella sua assenza. Amiamo chattare, fotografare condividere, videochiamare ma un abbraccio tra due corpi vivi è una esperienza la cui mancanza non è colmabile dalla tecnologia. Nell’epoca delle relazioni digitali e dell’istantaneo che annulla la distanza, annulla i confini, annulla il corpo, ai tempi del Coronavirus patiamo limitazioni, costrizioni, invalicabilità dei confini, distanza. Il calore fisico dell’incontro in occidente, una ritualità fatta di pacche, abbracci, baci sulle guance e strette di mano a distanza ravvicinata, diventa, per effetto delle imposizioni, una distanza necessaria a cui dover rendere conto, che ci richiama al “rispetto” dell’altro, che assomiglia di più alla modalità di incontro orientale, modulato attraverso il tono della voce, delle parole (verso le quali ci scopriamo impreparati),dello sguardo e del saluto a distanza attraverso gesti di incontro minimali: un cenno del capo, un inchino. Un’altra enantiodromia. L’ occidente che incontra l’oriente. Il tempo frenetico e denso di una Metropoli globale surriscaldata ed inquinata, portatrice sintomatica del tempo imposto dal business, con i suoi grattacieli titanici, con i suoi iper-mercati fagocitanti e sempre aperti, con il suo traffico denso e maleodorante, si modifica. Laddove per seguire il ritmo era necessario l’utilizzo di sostanze psicoattive (basti pensare alla diffusione trasversale della cocaina: dagli strati sociali sottoposti allo stress da obiettivo come le figure manageriali giù fino all’ultimo dei magazzinieri aziendali, e dei costi sociali di questo ritmo in termini di dipendenze, burn out, suicidi, depressioni, malattie psicosomatiche e stress correlate) ora ci è chiesto di rallentare. E’ come quando, abituati per una vita a prendere un autobus alla stessa ora, o ad avere un’ora a disposizione per la pausa pranzo, continuiamo a provare un sussulto e ci affrettiamo nella camminata o mangiamo con foga come avessimo i minuti contati anche una volta raggiunta la pensione o essendo in vacanza. Siamo tenacemente “abituati”. Il vecchio è duro a morire, quello a cui siamo abituati fatica a lasciarci. Il nostro vecchio modo di concepire noi stessi ed il mondo, quello che, almeno illusoriamente ci ha aiutato a distinguere nella nostra visione della realtà tra i buoni ed i cattivi, il nord ed il sud, chi vince e chi perde, non vorrebbe arrendersi all’evidenza. Ma come capita talvolta in quei viaggi in auto tra amici, quando, persi a chiacchierare dei vecchi tempi o a commentare una notizia od una canzone che passa per la radio, qualcuno non assorto dalla conversazione chiede: “Ehi ma dove stiamo andando?!” consentendo all’allegra comitiva di prendere coscienza del fatto di aver sbagliato uscita e di essere fuori strada da almeno 15 minuti, così questo Coronavirus viene a rallentare i nostri tempi e ci impone di porci la medesima domanda: “Ma noi, così di corsa, dove stavamo andando?” Se l’obiettivo è stato fino a qui la fretta di arrivare prima e per primi, perché non si vuole perdere tempo e perché “se non arrivo io arriva qualcun altro e non me ne lascerà abbastanza”, andrebbe capito se il problema sia nella fragilità dell’essere umano, con le sue meschinità, i suoi egoismi e le sue debolezze o nella struttura che abbiamo costruito per mantenere questa idea di ordine del mondo e su cui sorge quella di “essere umano” che ci ha accompagnato fino a questo punto. In tempi in cui abbiamo l’occasione di avere un assaggio di quello che significhi per tutti noi la limitazione della libertà, (limitazione relativa siamo d’accordo, ma proprio per questo ottima occasione per comprendere cosa significhi una limitazione totale, dalla quale un altro essere umano da un’altra parte del mondo è intento a fuggire) possiamo essere più vicini a quella parte dell’umanità alla quale questo privilegio è precluso. Ferirci con una spina è doloroso ma ci rende sufficientemente l’idea di quanto possa essere dolorosa una lama conficcata nella nostra carne. Per nostra fortuna possiamo inferire il grado di pericolosità di qualcosa anche senza averne fatto diretta esperienza ma attraverso i nostri processi immedesimativi e attraverso una amplificazione della nostra esperienza soggettiva. Solitamente ci sbagliamo: solitamente è molto più doloroso di quanto immaginiamo. Ci è data l’occasione di inghiottire una pillola di privazione che ci può consentire di riflettere sul valore di quanto davamo per scontato. L’essere umano è un essere dotato di empatia, di un sistema di traduzione automatica delle espressioni del volto e degli atteggiamenti che ci consentono di riconoscere le emozioni e di conseguenza di inferire le intenzioni di un nostro simile. È quello che possiamo definire pensiero intuitivo, e si fonda su esperienze orientate alla sopravvivenza che hanno consentito al nostro patrimonio genetico di giungere fino a noi. Siamo cioè naturalmente dotati della capacità di metterci nei panni altrui. Soprattutto se abbiamo provato anche in piccola parte quanto quell’essere umano stia vivendo, sia questa una emozione, un dolore o una esperienza, qualcosa che ci accomuni. Questo ci ha consentito nei milioni di anni di fare comunità, di venirci in soccorso, di cooperare per un futuro migliore. Ci consente di operare per il bene dell’altro che diviene implicitamente vantaggio personale nella sopravvivenza della vita. Questo Virus nella sua componente psicologica rivela quello che il mezzo di contrasto rivela nelle indagini radiologiche: regala al negativo una immagine, ci fa esperire sulla pelle un piccolo assaggio di quello che andiamo a compiere ogni volta che agiamo “Polemos”, la Guerra e la contesa volta alla divisione, tra me ed un ipotetico “altro”, che da me dovrebbe distinguersi. Il nemico nella sua potenza democratica, questa volta non fa distinzioni: tutti uguali, tutti “esseri umani”, tutti mortali e tutti contagiabili. Toccando le corde più profonde della nostra natura, squarcia il velo di Maya delle nostre rassicuranti convinzioni e ci mostra il volto dell’altro, un altro umano che rischia quanto noi. Questa occasione che ci si presenta come esseri umani è una versione edulcorata di quelle situazioni distruttive descritte in certi film hollywoodiani in cui un bel giorno al di sopra delle teste dei protagonisti appare una minaccia aliena, solitamente descritta come ostile e predatoria, ipertecnologizzata e rapace che attaccando il pianeta facilita gli esseri umani a superare i vecchi rancori per lottare uniti sotto una unica bandiera, quella dell’umanità, in una lotta tra specie e specie per la sopravvivenza sul pianeta, la nostra casa. Nulla di tutto questo accadrà. Non vi saranno dischi volanti o specie viscide di alieni macrocefali a minacciarci, ma un nemico che ci considera, esattamente come farebbe una minaccia aliena, tutti appartenenti alla stessa specie, quella degli esseri umani. Forse vale la pena raccogliere il guanto di sfida e chiederci a viva voce cosa si intenda oggi per “umanità”, per “vita”, per “senso”. E dal momento che questo Virus non è nemmeno il più letale tra i virus, se in realtà la nostra specie nella sua storia ha superato situazioni endemiche di maggior violenza e di altissima mortalità, cosa rivela psicologicamente questo “mezzo di contrasto virale”? Rivela impietoso tutta l’inadeguatezza della nostra visione di futuro. Evidenzia il puerile ottimismo di un modello di umanità la cui direzione non si interroga sul suo obiettivo, mantenendosi però grazie ad una retorica apocalittica che racconta e sventola messaggi di crisi, di fine delle ricchezze, di pianeta inquinato e di distruzione della natura. Tutta la fragilità sta nel nostro immaginario di futuro e nel non curarci di un’altra radicale verità rivelataci da Eraclito: “Nulla è durevole quanto il cambiamento. Non c’è nulla di immutabile, tranne l’esigenza di cambiare. Tutto fluisce, nulla resta immutato.” Chi non muta è contro natura. Il vecchio è fragile e si rivela fragile nella sua difficoltà a modificarsi, a cambiare. Si diviene vecchi quando si è smesso di immaginare potremmo dire parafrasando James Hillman, e siamo forse innanzi ad una occasione eccezionale per l’umanità: quella di poter fare esperienza dell’umano e di quei valori che, acquisiti come diritti, vengono dimenticati e negati ad una fetta dell’umanità stessa. Questo fenomeno che chiamiamo pandemia riconsegna all’umanità la sua corona: “Coronavirus” si chiama questa minaccia, e pone sul nostro capo la corona che ci consente di realizzare, non i nostri sogni di potere, ma quale sia in realtà la nostra più grande caratteristica comune, quella che ci rende profondamente umani e nient’altro che umani e simili ai nostri simili: la fragilità. C’è chi sostiene che dovremmo meditare sulla possibilità, (per salvare noi stessi e il nostro privilegio di abitare un pianeta straordinariamente adatto ad ospitare la vita, da una autoestinzione) di costruire una società fondata sull’Uomo Fragile. Questa potrebbe essere l’occasione che aspettavamo. Quella dalla quale non possiamo scostare lo sguardo. Bianco, nero, orientale, ispanico, ovunque posiamo lo sguardo incontriamo due occhi ed un volto, fragile quanto noi innanzi alla durezza della vita. Il vecchio esala gli ultimi respiri ed è forse possibile meditare un ritmo diverso. Forse è possibile “trasformarsi”. Dipenderà da noi, dal nostro dare valore alla parola che amiamo attribuirci, la parola “umani”.

via giardino 4 mestre

“Ogni umana attività è indotta dal desiderio”
Bertrand Russell